Il silenzio non è più sostenibile

Per anni ci siamo illusi che il razzismo fosse un problema in via di estinzione.

L’elezione di Obama ci ha fatto credere che da quel momento sarebbe stato tutto diverso, che gli americani avessero finalmente superato una cultura deleteria vecchia di secoli e che il mondo intero fosse vicino a superarla di conseguenza.

Ma quello che è successo negli ultimi giorni ci ha riportati alla realtà, ed è con i piedi ben piantati a terra che ognuno di noi si trova davanti a un bivio: da che parte andiamo?

Vogliamo continuare a tapparci gli occhi e a fingere che siamo tutti uguali davanti alla legge?

Che non ci siano forze politiche che cercano di dividere la popolazione sfruttando la paura, l’odio e l’intolleranza?

Che quell’uomo di 46 anni avrebbe avuto lo stesso trattamento se fosse stato bianco? O che non sia morto chiedendo aiuto, per mano di chi avrebbe dovuto invece proteggerlo?

La cronaca statunitense è piena di episodi di questo genere, e suscitano sempre più scalpore dato che i video circolano letteralmente in tempo reale, rimbalzando da un paese all’altro, ancora di più se si pensa alle dirette su Facebook e Instagram.

Allo stesso tempo si manifesta anche molto rapidamente la presa di posizione, l’indignazione e, nei casi peggiori, l’indifferenza.

L’indifferenza davanti a un poliziotto che con tre colpi di pistola uccide un afroamericano perché quell’oggetto che ha in tasca potrebbe essere un’arma. Davanti a un ragazzo che correndo nel parco si prende due proiettili sulla schiena perché sembrerebbe scappare dalla polizia. Davanti a una signora anziana che fa da scudo al nipote, circondato da una decina di poliziotti che non si accontentano di vederlo sdraiato a terra e implorare pietà. Davanti a una ragazza che registra un video in diretta, mentre il poliziotto che ha appena sparato al suo fidanzato le tiene ancora la pistola puntata alla testa.

Alla base di questo problema ci sono due fattori principali: la cultura della violenza e la cultura degli stereotipi.

Il primo fattore dipende dal diritto costituzionale di ogni cittadino americano di possedere un’arma: comprarne una è più facile che prendere la patente di guida. Nel momento in cui 9 persone su 10 posseggono almeno un’arma da fuoco, diventa difficile per la polizia, a livello statistico, escludere la possibilità che un sospettato sia innocuo. Paradossalmente però, nel momento in cui 9 persone su 10 posseggono almeno un’arma da fuoco, possederne una sembrerebbe veramente l’unico modo per sentirsi in qualche modo protetto.

Il secondo fattore dipende dal razzismo vero e proprio, quello becero, elementare e basico, che impedisce a una persona di valutare razionalmente le circostanze. Negli Stati Uniti, un afroamericano, rispetto a un bianco, ha circa il doppio delle probabilità di essere ucciso da un poliziotto. Come se essere neri volesse automaticamente dire essere armati. Come se essere armati volesse automaticamente dire essere criminali (vedasi fattore n.1).

Negli ultimi anni sono state numerose le manifestazioni del movimento Black Lives Matter, la maggior parte delle volte in seguito a episodi drammatici come quello dello scorso 25 maggio.

Se da una parte c’è chi preferisce manifestare pacificamente, in segno di solidarietà e sensibilizzazione, dall’altra c’è chi, carico di frustrazione, agisce più violentemente, dando in pasto ai media scenari da vera e propria guerra civile, con auto e caserme incendiate, resse e blocchi di polizia, vittime e altri omicidi.

È evidente che il problema sia grave e che sia necessaria una soluzione, qualsiasi sia la forma più efficace per raggiungerla.

Ma in questo momento il silenzio non è più sostenibile.

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